La biologia, si sa, non è una scienza perfetta. Ne consegue pertanto che a volte, per puro caso, si manifestino caratteristiche anatomiche estremamente rare e particolari in alcuni animali, degne di essere citate e raccolte perché raccontandole, forse, si scopre che così rare non sono.
Nell’ambito dell’osservazione degli ungulati selvatici, capita frequentemente di osservare dei soggetti con qualche anomalia, dovuta a malformazioni genetiche, traumi, carenze alimentari, patologie, che possono alterare qualche struttura anatomica. Sempre interessanti, soprattutto in ambito venatorio, sono le situazioni in cui tale anomalie interessano i palchi dei cervidi o le corna dei bovidi, che rendono il trofeo unico e speciale per il cacciatore che ne entra in possesso dopo un’attenta azione di caccia.
Capita però a volte, che le sorprese si nascondano e siano osservabili solo a prelievo effettuato, creando stupore non solo nel cacciatore, ma anche nei tecnici che procedono con i rilievi biometrici del capo.
È il caso della presenza dei canini mascellari nel capriolo (Capreolus capreolus). Nulla a che vedere con quelli presenti nel mosco asiatico (genere Moschus), nel capriolo d’acqua (Hydropotes inermis) o nel muntjak (genere Muntiacus) ma sufficientemente lunghi per destare curiosità.
Il cervo (Cervus elaphus) è rinomato per avere a livello mascellare la presenza delle perle, due canini vestigiali, di forma arrotondata, che non hanno alcuna funzione masticatoria, ma che sembrano essere residuo di canini più lunghi presenti nelle popolazioni preistoriche di cervo.
Riprendendo la teoria darwiniana della selezione naturale, ormai ampiamente consolidata, sappiamo che si ha un progressivo aumento degli individui con caratteristiche ottimali per l’ambiente in cui vivono, in rapporto con lo spazio vitale, l’alimentazione, i predatori, etc…. Capita a volte che gli individui di una stessa specie si differenzino l’uno dall’altro per caratteristiche genetiche e fenotipiche (cioè morfologiche e funzionali, frutto dell’interazione del genotipo con l’ambiente). Ciò comporta che si generi una certa variabilità, derivante da mutazioni genetiche casuali che, nel corso delle generazioni successive, possono essere “selezionate” avvantaggiando, in date condizioni ambientali, i soggetti che abbiano manifestato quelle particolari mutazioni in grado di fornire un migliore adattamento all’ambiente, in termini di sopravvivenza e riproduzione.
Gli individui meglio adattati ad un certo habitat si procureranno, pertanto, più facilmente il cibo e si accoppieranno più facilmente degli altri individui della stessa specie che non presentano tali caratteristiche. In altre parole, è l’ambiente a selezionare le mutazioni secondo il criterio di vantaggiosità sopra descritto: i geni forieri di vantaggio adattativo potranno così essere trasmessi, attraverso la riproduzione, alle generazioni successive e con il susseguirsi delle generazioni si potrà avere una progressiva affermazione dei geni buoni a discapito dei geni inutili o dannosi, che però possono rimanere sopiti e riemergere casualmente in alcuni soggetti.
Se torniamo indietro di qualche milione di anni, nel Miocene superiore (circa 6 – 7 milioni di anni fa), in Italia era presente l’Oplitomerice (genere Hoplitomeryx), un animale particolarmente caratteristico per la presenza di cinque corna disposte sul capo e di lunghi canini superiori ricurvi. L’aspetto generale doveva ricordare quello di un piccolo cervo, e le dimensioni della specie tipo (Hoplitomeryx matthei) erano simili a quelle di un attuale capriolo; il peso doveva aggirarsi sui 45 chilogrammi. I resti di questa specie furono trovati nella zona del Gargano e in Grecia (Vedi foto – Fonte Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Hoplitomeryx).
È molto probabile che questo antico discendente del capriolo italico, abbia lasciato una sua piccola impronta genetica nelle popolazioni attuale, che a volte si manifesta per l’eruzione dei canini superiori.
Nei tre reperti rinvenuti mediante prelievi selettivi nel Piemonte Nord-Occidentale (Provincia di Novara e Verbania), i canini sono situati nella parte prossimale dell’osso mascellare, molto vicino all’inserzione dell’osso incisivo, staccati diversi centimetri dai premolari superiori.
I tre trofei appartengono a tre caprioli maschi, uno di un anno di età, e due classificati nella classe 6-7 anni, secondo i criteri di valutazione dell’usura dei denti di regione Piemonte.
La trofeistica del capriolo giovane, rinvenuto 4 anni fa nell’area del novarese, evidenzia un’eruzione protesa verso la parte prossimale del muso, con la presenza di canini appena accennati, i quali sono risultati visibili solo dopo la preparazione del trofeo.
Nel trofeo del capriolo adulto pulito (ATC Novara 2 – Sesia, stagione venatoria 2017), i canini sono leggermente appuntiti alla base e con crescita lineare secondo l’inclinazione della parte prossimale dell’osso mascellare.
Nel trofeo del capriolo adulto, fotografato presso il centro di controllo del Comprensorio Alpino VCO2 – Ossola nord nella stagione di caccia 2018/2019, i canini si presentano appuntiti e leggermente ricurvi, sporgenti circa un centimetro dal palato.
È evidente come non sia più necessario per un capriolo o per un cervo disporre di canini affilati, probabilmente utilizzati per difesa o per combattimenti, e quindi l’inutilità di tale dente, ha portato nell’ambito dell’evoluzione ad una regressione ed una perdita dello stesso durante l’evoluzione della specie, lasciando tuttavia delle tracce nella genetica che a volte fanno riaffiorare l’antica caratteristica.
Fotografie di Franco Rizzo, Attilio Torreggiani, Roberto Viganò
Articolo pubblicato sulla rivista WILDE (nr 03/2018)
Ne ho prelevato anch’io uno uguale a quelli in foto,in
Provincia di Treviso.